Quello degli “invisibili” si può dire che sia un tema sempre presente in tutti i miei lavori, in alcuni in maniera indiretta, in altri in modo evidente e dichiarato (il titolo del trittico è “gli invisibili”).
Davide Pizzigoni questo tema lo affronta su un piano assai diverso dal mio e, contrariamente a quanto succede nei miei lavori, ha il merito di farlo in maniera molto più convincente ed efficace (ed anche più comprensibile), anche se, a mio modesto parere, risulta un poco estetizzante (malgrado le sue intenzioni).
Il punto di incontro del suo lavoro col mio è il mancato riconoscimento, l’invisibilità, che subisce ciò che è fuori dai circuiti normativi, dai codici socialmente e culturalmente accettati e codificati. Questo può accadere sia sul piano sociale, come nella visione di Pizzigoni, che sul piano del linguaggio espressivo, come nei miei lavori.
La grande differenza tra il mio lavoro e quello di Pizzigoni – senza voler considerare la cosa più ovvia relativa al linguaggio formale - è l’incompiutezza. Se c’è un valore nel mio lavoro, consiste unicamente nell’intento che lo ha animato sin dall’inizio, per il resto, ci si trova semplicemente di fronte a lavori frutto di un percorso iniziato da pochi anni (e già interrotto), con risultati quasi sempre mediocri (non è falsa modestia). L’intento però era ed è assai importante e ha sicuramente a che fare con gli “invisibili”: provare a mettere insieme un linguaggio espressivo “fuori copione”. Uso questa espressione non a caso, il link, si capisce, è quello della morte del cigno.
Fuori copione non per fare l’originale o il diverso ad ogni costo. Fuori copione per andare dentro di se. Dentro il copione c’è solo la recita, è già tutto scritto, ben leggibile, visibile. Fuori copione ci sono gli invisibili; Pizzigoni li ha fotografati nei vari musei: guardiani che sono li, sotto gli occhi di tutti ma che, paradossalmente, rimangono invisibili. In questa loro invisibilità ha voluto cogliere il loro essere quello che sono, senza filtri precostituiti. In un certo senso io stesso nei miei quadri miravo a “fotografare” gli invisibili, quelli che stanno dentro il mio “museo”.
Anche il cigno che non vuole morire l’ho “fotografato” lì. E’ una figura che mi appartiene. Indipendentemente dal fatto che sia riuscita bene o male, che sia bella o brutta, che possa piacere o no, parla di me. In questo senso è riuscita, è come lo scritto di Pipicelli, quello bello, “Senza tempo”. Solo che quello lo si può leggere senza problemi e così diventa “visibile” a chiunque, il mio cigno invece no e può diventare visibile o invisibile a seconda di chi lo guarda.
Visibile-invisibile; mi piace-non mi piace; acceso-spento. E’ curioso che la “visibilità” (ciò che è condivisibile e riconoscibile come valore?) di ciò che più ti appartiene possa dipendere da un semplice acceso-spento. Come se “Senza tempo” di Pipicelli (ma anche qualsiasi altro scritto) potesse “spegnersi” con un semplice non mi piace.