Il Doppio nell'Arte

Quando cercano di dargli degna sepoltura coloro che lo amano scoprono, nel punto in cui il giovane è scomparso, un bellissimo fiore dai petali bianchi orlati di color zafferano.

La lettura più comune del mito ne ha colto l’aspetto propriamente psichico, di investimento pulsionale, per cui Narciso è diventato simbolo di un atteggiamento dell’Io che sa amare esclusivamente se stesso, il proprio corpo, escludendosi totalmente dal resto del mondo. Da questa lettura nasce lo studio psicanalitico della sindrome di Narciso.

Proviamo invece a riflettere sul mito di Narciso dal punto di vista della conoscenza di sé e del doppio come condizione necessaria per capire se stessi. Narciso, protetto da ogni forma di consapevolezza, non riconosce come tale la propria immagine e quindi se ne innamora perdutamente.

Sono proprio l’ingenuità e la mancata conoscenza di sé a costituire un terreno fertile per un’insolita esperienza di analisi interiore. Innamorandosi della propria immagine, Narciso afferma che il viaggio conoscitivo più radicale e originario è quello dentro sé stessi.

In questo modo la passione, concepita per ignoranza, diventa indagine all’interno della coscienza. Ma il destino di Narciso era già scritto. Egli sarebbe sopravvissuto se non si fosse conosciuto: il racconto si conclude con la morte di Narciso.

Narciso “vede” se stesso e questo lo porta alla morte. Di primo acchito questa conclusione potrebbe sembrare tragica e senza via d’uscita: la conoscenza di sé porta alla morte. Forse però il mito può essere letto in modo diverso.

Per accedere ad una dimensione di conoscenza più profonda è richiesto di morire ad una dimensione egoistica e razionale, racchiusa dall’involucro corporeo. Narciso anela nell’abbraccio con il Sé, ma questo comporta il sacrificio di sé come individuo particolare.

Chiunque si trovi ad intraprendere un cammino di conoscenza, novello Narciso, passa attraverso un’esperienza di auto-anestetizzazione verso gli stimoli del mondo esteriore (Narciso viene da Narkè, da cui narcosi), attraversa una fase di ripiegamento interiore che il mondo spesso interpreta (non a caso coincide con l’accezione più diffusa del mito) come egoistico amore per sé, infantile e infruttuoso.

Ma tutto questo, se la tensione è retta fino in fondo, se si resiste cioè alla tentazione dell’immediatezza, porta alla suprema conoscenza, al Sé di cui il fiore è da sempre simbolo.

In questa chiave il mito di Narciso, come quello di Ermafrodito, esprime l'aspirazione alla completezza spirituale.

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Il mito di Narciso nelle Metamorfosi di Ovidio

Narciso - narra Ovidio nelle Metamorfosi - nasce da Liriope, la ninfa di fonte che, per la sua bellezza, fu rapita dal dio fluviale Cefiso, che l’avviluppò nelle sue tortuose correnti.

Figlio delle acque, egli è un giovane di straordinaria bellezza, cui Tiresia, il veggente, ha previsto lunga vita solo a condizione che "non conosca se stesso" (ironico rovesciamento del più famoso "conosci te stesso").

A sedici anni poteva contare già numerosi amanti, tutti respinti, di entrambi i sessi.
Un giorno, mentre è a caccia di cervi in una foresta, domanda a gran voce se ci sia qualcuno lì.

La ninfa Eco, che si è innamorata di lui e lo segue di nascosto, ripetendo le sue ultime parole gli risponde e tenta il desiderato abbraccio, ma egli la respinge prontamente.
Si narra che della bella ninfa non siano rimaste che le sole ossa, tramutate in sassi, e la voce tutt'ora vagante in valli solitarie.

Ma qualcuno degli amanti respinti chiede vendetta al cielo. Interviene la dea Nemesi a far sì che anche Narciso sia privato dell’abbraccio di colui che ama.

Accade infatti che, assetato, Narciso si affacci ad una sorgente: lì scorge la propria immagine e se ne innamora irrimediabilmente. Sulle prime non riconosce se stesso, poi giunge la verità: "Io sono te". Struggendosi d’amore per quello che oramai sa essere se stesso, Narciso si lascia morire.

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