L’opera artistica di Adriano Avanzini si presenta di primo acchito come un viaggio all’interno delle correnti dell’arte dell’ultimo Novecento, assunta in quel suo nucleo essenziale che si compone di un estratto di simboli e stilemi provenienti dai sostrati di mondi artistici che oggi definiamo usualmente con i termini di “arcaico” e “primitivo”. E, per cammino opposto e complementare, da quei mondi rimonta ad incontrare l’esperienza che già fu di quegli artisti che per desiderio di nuovo si appropriarono del più antico, cercando nei tempi pre-classici della nostra Europa, oppure al di là di Oceani, nelle visioni oppiacee d’ambigui orizzonti capovolti, l’idolo e la maschera, primarie forme di figurazione antropomorfa.
Nell’opera di Avanzini, a questi opposti flussi, confluenti l’uno nell’altro a comporre un’unica corrente di stratificazioni simboliche e formali, corrispondono nel metodo due processi creativi apparentemente polari, sicuramente lontanissimi in senso “storico”, ovvero secondo una cronologia storiografica lineare e progressiva. Non altrettanto se invece la storia la pensiamo non come il distendersi lineare di una fettuccia, ma come uno stropicciare di stoffa, all’interno del quale ciò che cronologicamente appare distante è invece sovrapposto, combaciante, corrispondente.
Se la grafica computeristica mette a disposizione dell’artista odierno forme e soluzioni primarie ed essenziali quali quelle che la mente primitiva (mi si passi l’espressione), scevra da stratificazioni e codificazioni accademiche, produceva con un’immediatezza ed efficacia espressiva che solo dopo secoli o millenni abbiamo in qualche modo recuperato, forse alla base della grammatica dei pixel giacciono gli stessi impulsi mentali, e infine gli stessi bisogni di vita, che animavano il pensiero selvaggio delle categorizzazioni totemiche e delle opposizioni binarie studiate da Lévi-Strauss.
Allora la pratica dell’elaborazione computeristica echeggia della sua lontanissima prossimità con il fare artistico più rudimentale che sceglie il gesto essenziale di una spatola e l’intonaco asciutto come di muro. Piuttosto che una copia e un originale, oppure un progetto e la sua realizzazione, l’opera nasce così con un suo doppio, un riflesso identico, però non per riproduzione meccanica, grande prodigio della modernità, ma per distinta e parallela genesi.
Abbiamo parlato di idolo e maschera, figurazioni pre-umane di quei tempi in cui rappresentare l’uomo era inessenziale - o meglio, impossibile - perché ogni rappresentazione era di per sé un’evocazione del numinoso. Ed è noto quanto la prima grande rivoluzione figurativa del Novecento, ovvero il Cubismo, abbia attinto dal gran pozzo degli stilemi arcaici nella ricerca di quel salto oltre la figura che era certo anche un anelito a passare oltre l’uomo, ma senza stemprarne la materia in deliqui trascendentali, assumendo, forse più con forza che con consapevolezza, la responsabilità e la tragedia di un tale atto.
Le opere di Avanzini ci ripropongono le trame composite di questa ricerca, con l’originalità propria di un percorso denso d’esperienze interiorizzate, nella quiete e a volte nella tempesta. L’originalità più autentica, che non è mai affannosa ricerca del nuovo, ma a volte adesione attiva e veritiera al comune destino di un discorso ancora echeggiante di senso.
Milano, gennaio 2007
Il nuovo e il più antico
Paolo Ferrari